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Entrava con il piede destro in qualsiasi porta gli si ponesse di fronte, ma si rifiutava di cedere all’idea d’essere ossessivo-compulsivo. La sua famiglia gli aveva insegnato sin da piccolo a non credere nella psicanalisi, avrebbe capito solo da grande il motivo; sono solo coincidenze, gli dicevano.

Capì di possedere una psiche in un giorno di un mese che non avrebbe più ricordato, quando provò piacere nel non rispondere a sua madre che lo chiamava dal piano di sotto. Da quel giorno senza data, per lui tutto fu molto più lento, più difficile e più profondo.

La vita di paese, si ripeteva, t’impedisce di pensare. Sudava e si sentiva svenire al cospetto di una folla, ad una di quelle sagre paesane che tanto piacevano ai suoi vecchi amici. C’era una vena di autoconvincimento in tutto questo, ma non lo poteva ancora capire.

Non rispondere alle persone che lo chiamavano divenne sempre più appagante, a breve una delle poche abitudini di cui si fosse potuto fregiare. Amava il suono del suo nome che accantonava il silenzio per poi, subito dopo, restituirgli la scena.

Parlava con qualsiasi cosa, pur di non ricevere risposta. Era un vero e proprio cultore del silenzio; ma il silenzio è il peggior interlocutore che si possa desiderare. L’unico in grado di lasciarti parlare di qualsiasi cosa.

Ebbe anche lui una vita reale, come tutti i giovani del suo tempo. Non si poteva dire bello, né di buona compagnia con i suoi discorsi a volte troppo pieni altre volte sconvolgentemente vuoti; ma questo non gli vietò di dar vita a sentimenti, salvo poi perderne totalmente il controllo. Crescevano. Li metteva a dormire alla sera che erano poco più grandi di una monetina, al suo risveglio erano immensi: completamente fuori controllo. Amò e odiò come nessuno nella storia era stato in grado di fare.

Decise di comprare dei fiori. Camminò un giorno intero in cerca di un fioraio, senza trovarne. Portò a casa i fiori che non aveva comprato e li mise in un vaso, di quelli che i parenti portano in dono a Natale perché non ci si presenta mai a mani vuote. Doversi ricordare di non far mancare l’acqua ai suoi piccini lo divertiva.

Molte cose lo facevano ridere. Si ritrovava a ridere anche mentre faceva l’amore con lei, ma solo in sua assenza. Pensare non lo rendeva felice, ma lo divertiva: spesso si chiedeva, in particolare, cosa avessero potuto pensare le persone che aveva intorno a proposito dei suoi pensieri.

Molto presto smise di porsi quel tipo di domande, rassicurandosi sul fatto che nessuno avrebbe mai saputo cosa pensava; continuò a divertirlo quel che rimaneva dell’idea per qualche tempo, poi non rise più.

L’unico legame con quello che poteva essere la realtà era svanito, era affogato nell’acqua dei suoi fiori. La sua attenzione si spostò su cose che riteneva molto più reali della realtà. Ebbe lunghi colloqui con le nuvole alle quali la finestra della sua stanza faceva da cornice, lo incuriosiva il saperle fatte d’acqua e allo stesso tempo vederle volare. Fece amicizia soprattutto con una di quelle bianche signore, che passava di tanto in tanto a riempire quel rettangolo di legno. Non passò per qualche giorno e la diede per piovuta via, senza curarsene più di tanto.

Digerita questa leggerissima delusione, la sua attenzione tornò quasi in casa. Le finestre ora erano il suo obiettivo: gli permettevano di uscire senza muoversi, la sua pigrizia fece il resto. S’innamorò delle finestre, la sua preferita fu quella dipinta da un pittore belga il cui nome non gli fu nuovo; si ricordò con poco sforzo che quel nome aveva davanti ogni qual volta, da piccolo, si apprestava al telefono per cercare di far colpo su una sua compagna di classe, era il titolo di un libro.

Il suo rapporto con le finestre durò molto di più di quello con le nuvole, gli regalò giorni di tranquillità quasi ascetica, ma non superò il giorno in cui gli capitò di trovare la sua finestra chiusa. Si vide costretto a prendere per mano l’amore per le finestre e andarsene altrove, in una stanza che non ne avesse.

Fu così che la sua mente decise di tornare in casa certa di trovarvi tutto quel che cercava, difficilmente ne sarebbe uscita.

Ora si trovava in compagnia di Amore per le finestre, che non lo incuriosiva né lo stimolava, ma l’educazione gli imponeva di non cacciarlo da casa.

– Beh.. come ti trovi qui, con me?- gli chiese un mattino.

– Non mi sei antipatico, mi piace il tuo modo di non parlare; e in fin dei conti ti devo l’esistenza, disse Amore per le finestre, vorrei però farti notare che nella stanza nella quale mi costringi a soggiornare non ci sono finestre e la cosa mi annoia un po’.-

L’educazione non era un vanto del suo nuovo coinquilino, la qual cosa portò alla mente del suo creatore un ragionamento che ormai conosceva come le sue tasche: gli era sempre stato insegnato che l’educazione sta bene in ogni dove e che si deve essere educati anche con chi non lo è; a lui quest’unilateralità non era mai andata a genio e colse l’occasione per concludere definitivamente la questione: non è necessario essere educati con chi non dimostra di esserlo.

Così, forte della nuova conquista, disse: – Non ti trattengo -.

La frase suonò come lanciata in un anfiteatro vuoto e Amore per le finestre, offeso come solo un maleducato può essere, lasciò la stanza.

Nei giorni seguenti chiuse la vicenda in una bottiglia che trovò per strada e che gli sembrò adatta.

Cosa fatta.

Ded. ad Agnese