27 agosto 2021

Nerolalìa
O( )scurolallere belle
in tempo di( )spari(re),

Tra corpi pronominali
Non filtra luce
Che ingen(i)talisca
Gli impatti.

Per noi
(che nasciamo)
irreali
È troppo umana
la voglia tenera
di-spiegarsi
(nel)la voglia infinito-cardinale
che digrigna le (im)proprie
logiche al tempo norm[…]

Zarathustra, un collage.

“Ecco, non c’è sopra nè‚ sotto! Slànciati e
vola: in giro, in avanti, all’indietro, tu che sei lieve! Canta!
non parlare più! – non sono le parole, tutte, fatte per i grevi? Non
mentono tutte le parole per chi è lieve! Canta! non parlare più!”

[…]

Ma quando la danza ebbe termine e le fanciulle se ne furono andate, diventò
triste. “Il sole è sotto da un pezzo, disse infine; il prato è umido,
dalle foreste viene il freddo. Qualcosa di ignoto mi avvolge e
guarda pensoso a me. Come! Tu vivi ancora, Zarathustra?
Perché? Per chi? Con che? A che? Dove? Come? Non è follia,
vivere ancora? – Ahimè, amici, è la sera che mi mette in bocca
queste domande. Perdonatemi la mia tristezza! Si è fatta sera:
perdonatemi che si sia fatta sera!”

 

 

Vangelosia [1]

Io sono Dio. Essendo, lo sono e, se non potessi scriverlo, non lo sarei. Tanto basti sulla mia onnipotenza: essere dio era chiedersi cosa fosse essere dio.

Mi s’incensa nei tram, la funzione del mattino, con aliti di colazioni fatte con esasperante calma. con vapori tiepidi, i vespri, di genitali lasciati umidi di vicendevolezza in fasi postorgasmiche sapute riempire – riempite sapientemente – di sentimento. con l’aria domenicale respirata da professionisti della domenicalità finestrale nella domenica pomeriggio di un solitario.

Tutti possono essere dio, ma solo io lo sono. qualcuno deve pur portare la piuma in equilibrio sulla clavicola destra, nell’affollamento così evidente di schiene stremate (dalle croci).

Della deità:

1. In età apocrifa mi s’insegnò che gli atti hanno ragion d’essere nella loro fine. Femminile, la fine e femminea, non maschile, il fine. Solo dopo un numero di resurrezioni indistinguibile dall’infinito – vivo ogni morte, checchè se ne traduca – capii d’essere principio io stesso e unico degli atti – risparmio i possessivi, chè solo io esisto veramente – e che la mia onnipotenza s’interrompeva ad un attimo dalla fine. Che per essermi scelto antropomorfo avevo, naturalmente, rinunciato all’onnipotenza e per essermi scelto uomo dovevo aver prodotto (sono sempre già-stato, anch’io):

2. Lei. in dio coincidono causa ed effetto. quotidianamente – sul tempo in seguito – Lei masturba con pazienza e visionaria ondivaghezza i crucci di dio: dalla causa su fino all’effetto e giù di nuovo alla causa sulla quale preme delicatamente il palmo della mano sinistra, fino a far dei due estremi logici uno.

Mnemofacezia

Si attendono, 

facilissimi belletti di carne, 

allo scheletro poroso

di miei-tuoi incompiuti rinarrati

tante ore di budella

miseramente vuote di manque. 

 Ti faccio mnemofacezia

bagnata, ad inverare, 

 di questo mare ormai 

di sole semibisdrucciole. 

Di questo abortito

alessandro l’insufficienza mitocondriale 

(mai si crea (l)a perfezione) 

in attesa che tu venga, 

a che si alzi e cammini, 

a dargli la morte. 

18.07.2017

Hai perso,

dolcissima,

tutti i luoghi;

fuorché quell’intercapedine squisitamente estiva tra la spinta degli occhi e la merda luminoso-vacanziera che si chiama e chiamiamo e chiama riposo. E’ un gioco fenomenologico, infine: capire se si apra tra cristallino e retina o tra intenzione e residuo.

 

495 parole a partire da Interstellar

I paradossi sono cosa estremamente seria e credo che la loro ragion d’essere sia squisitamente umana. Forse anche troppo umana.

Interstellar, visto e poi guardato, basa la propria coerenza interna sul paradosso cosiddetto “dei viaggi nel tempo”. La quinta dimensione altro non è che il luogo nel quale le altre quattro si piegano su se stesse, ma pur concedendo, per la “teoria a molti mondi” l’esistenza di molteplici linee temporali, in nessun modo si vede come debbano esistere ponti tra alcune di esse. Due linee temporali sono diverse finché hanno in comune, detto n il numero totale degli “stati di cose” di una delle due, una successione di massimo n-1 “stati di cose” (non trovo un modo migliore per definite i “momenti”, i presenti complessivi). E’ lecito parlare di linee temporali simili, ma non di salti dall’una all’altra. O meglio: può esistere una linea temporale che abbia in comune un diverso “stato di cose” con ognuna delle altre, così da sembrare ad esse trasversale, ma lo stesso non si riesce a parlare di salto tra linee. Un cronoviaggiatore che si recasse a modificare un qualche aspetto del passato, nella più “libera” delle ipotesi altro non farebbe che produrre (per meglio dire: intraprendere) una nuova linea temporale, mentre volendo rifarsi al determinismo, al principio di causa ed effetto e considerandolo così abitante di un universo unico, si limiterebbe a consentire l’esistenza (già prevista e in atto) di un futuro nel quale il suo viaggio è già storia, senza in questo apportare alcun cambiamento alla linea temporale.

Ogni linea temporale è quindi autocoerente (ogni “stato di cose” è ragion sufficiente del successivo) ed è costituita dal susseguirsi di cause ed effetti nell’apertura prodotta dalla possibilità: si capisce che, supponendo di parlare da una dimensione ulteriore rispetto alle quattro “usuali”, tutto ciò che di volta in volta accade risulta già accaduto, visibilmente. E’ ciò che il passato può dire di sé immaginandosi osservato dal futuro: il futuro anteriore. Il “sarà (già) stato”.

Supponendo che la quinta dimensione esista da sempre e che semplicemente venga “scoperta” ad un certo punto della Storia (è sufficiente considerare una qualsiasi storia) e che stia alla quarta, ovvero al tempo, come la terza delle spaziali sta alle prime due, non sembra possibile concludere niente di diverso dalla tautologicità di Interstellar.
Guardando più attentamente non è però tautologico più di qualsiasi altra realtà, se ci si immagina capaci di altre dimensioni. Si può concludere che, a meno di (insensatissime) infinite dimensioni e di Qualcuno capace di trascenderle tutte, non può esistere qualcosa di assolutamente nuovo. Qualunque cosa è già-stata per qualcuno, in un triste gioco di scatole cinesi. Il libero arbitrio di chi è confinato in una realtà n-dimensionale appare illusione ad un essere (n+1)-dimensionale, che si crede libero, ma in realtà gode di qualcosa che un (n+2)-dimensionale sa essere tutt’altro che libertà.
Interstellar è inevitabilmente e ovviamente tautologico per lo stesso motivo per cui io non avrei potuto non scrivere queste poche righe.

Appunti per un monologo.

[…]
Poche parole, mia Inestimabile,
meritano la carta.
Chi sa se queste,
le precedenti… No!
L’azione è aborto, se non s’ammanta d’oblio!
(Potresti nascondermi la Terra, tu.)

Ma l’umano mi si fa sempre più estraneo,
mio Ridere Incurante:
così poca cosa sono,
e per di più ritratta in sé,
che sparisco nel vivereuclideo.
Lo stesso mio parlarmi-stesso
è noia circense.

E mi consolo: le idee non durano otto ore e
si ostinano al collo
di chi ne ha uno.
Ma nessuna delle mie manie
esce dal tempo,
misero lacchè di questa vita.

Qual noiosa, noiosa operetta mi vado cantando!
Le idee son limitate e non posso averle tutte.

Occorre che tu impari a morire, mia Cara
e che porti con te la mia voce.
Sono stanco di essermi.
Mi farò dotto lacrimale,
ma come potrei parlarti
due volte con la stessa lingua?
Ogni parola nasce cadavere
e tu sei sentire distillato!

[…]

Appunti su “Petite anatomie de l’image” – Olivier Smolders, 2009

Collezionismo, piacere puro della simmetrizzazione di visioni sviste, non guardate. Non intenzionate se non dall’occhio che si lascia sorprendere così tanto dall’assenza di concettualità alle spalle da costringere il regista a prostrarsi e a richiamare, capitolo per capitolo, la realtà storica. Fa tenerezza notare come in questa ricerca di senso ci si rifaccia, tra gli altri, a Sade e Lautréamont, colpevoli per eccellenza dell’erotizzazione e dell’estetizzazione del corpo umano più fini e più fini a se stesse.

La distanza prodotta dall’artificialità della dissezione chirurgica si produce in una riestetizzazione del corpo devitalizzato, espunto del principio vitale e come tale non più principiato, ma principio a sè e di sè. In particolare: produzione di un’estetica a mezzo della de-canonizzazione della visibilità, della disorganizzazione delle linee e della loro liberazione nel piano dei richiami: vasi sanguigni-radici, risimmetrizzazione degli occhi, sovrapposizione dei doppi e raddoppiamento delle singolarità.

La cera fiorentina, che mi rifiuto di credere esclusivamente plasmata da intento medico, sottolineata dalle assordanti cornici geometriche nel regime di occlusione liberatoria nelle quali è impossibile non notare Bacon, si fa carico dell’assenza dell’attrattore concettuale, dell’Umano centrificarsi in quanto viventi diversi dai viventi. Forma umana liberata.

“Gli altri, quindi io.” Considerazioni in sbadata forma di sonetto.

 

Silenziodioso, sangue di sigaretta;

si deve decapitarsi per riposare.

Comunanza nella frivolezza,

ecco cosa attanaglia questa rivolta!

 

E’ un bisogno di bisogni,

caro il mio Sole raffreddato e imbelle,

siamo, tanto per fare,

ma che mai si faccia troppo. Mai.

 

Oh madri di quest’orbe troppo studiato,

trattenete i vostri aborti in grembo

prima che diventino umani.

 

Parlo affinché non mi s’intenda,

ma (mi) parlo perché si sospetti,

ci si confonda. In realtà?

IV

Conservava gelosamente l’abitudine disseminare di trappole d’inchiostro la strada lungo la quale cercava di mettere in fuga la veglia. “Dove finiscono le mie dita e dove comincia la carta?” Pensò osservando il bianco tra le parole del libro che si trovò costretto, come prima azione seguente il risveglio, (a rigurgitare) ad estrarsi – in maniera non del tutto indolore – dal cervello. “Cosa li separa” proseguì “se la mia pelle è fatta d’infinite brane e lo stesso la pagina?”. L’atto del toccare, del venire in contatto, nemmeno lontanamente ha la forza di sobbarcarsi il compito di colmare la distanza tra i due in-finiti. Ad un occhio più attento (cominciavano spesso così i riquadri color pastello dei libri di scuola che spesso non riusciva a capire) quella della separazione appariva una convinzione infondata, un’incrostazione concettuale dovuta alla fede nel linguaggio. “Carta” e “pelle” sono separati da uno spazio (occupato da una “e” in questo caso, per ragioni grammaticali) che si esprime in una pausa, in un breve silenzio. Una prospettiva molto spiritosa, che però nascondeva un’insidia: dove si sarebbe interrotto l’essere-carta delle brane e dove ne sarebbe cominciato l’essere-pelle? Al suo sguardo attento le brane dell’uno e dell’altro lato del presunto contatto altro non avevano a raccoglierle che una parola! Con un salto favorito dal silenzio, d’improvviso, il dito diventava di carta e la pagina di pelle.

Era un mercoledì pomeriggio di agosto e stupita l’umanità poté assistere ad una pioggia di unghie di martiri e denti scheggiati di vittime. Casualmente per chi non crede nel caso e necessariamente per chi non crede nel credere, questi scarti di ostinato attaccamento alla vita si disponevano a terra in piccoli mucchietti di indignata ghiaia sui quali nulla di organico sarebbe mai potuto crescere. (Non si mangia…) un’idea (“Perché”, si capisce) non è strettamente organica, nonostante [l’evidenza di corridoi accademici (Platone, giustappunto si parla di idee)] lo sia la sua condizione necessaria – ammesso che si pensi e non si pensi, impersonale il primo “si” e celante un’autonomia di un pensiero il secondo; nella confusione del linguaggio l’impersonalità e l’autonomia di un ente astratto si ritrovano ad essere simboleggiati dalla medesima parola. Come ci si può seriamente fidare del linguaggio? – e rimane astratta finché non diventa perturbazione del mezzo: suono, parola.

Nel caldo atroce di quel pomeriggio ogni cosa rischiava di essere ogni altra.
Si chiese cosa avesse in realtà sfiorato pensando di aver a che fare con le Sue ginocchia e che cosa valesse ora il privilegio tanto faticosamente acquisito di poterle baciare le palpebre socchiuse. Di Lei aveva sempre posseduto solamente il nome, col suo incipit di povera maiuscola serpeggiante; non l’aveva mai raggiunta, scoprì.

Quindi?

 

Piccole, strane esplosioni

Piccole, strane esplosioni