Vangelosia [1]

Io sono Dio. Essendo, lo sono e, se non potessi scriverlo, non lo sarei. Tanto basti sulla mia onnipotenza: essere dio era chiedersi cosa fosse essere dio.

Mi s’incensa nei tram, la funzione del mattino, con aliti di colazioni fatte con esasperante calma. con vapori tiepidi, i vespri, di genitali lasciati umidi di vicendevolezza in fasi postorgasmiche sapute riempire – riempite sapientemente – di sentimento. con l’aria domenicale respirata da professionisti della domenicalità finestrale nella domenica pomeriggio di un solitario.

Tutti possono essere dio, ma solo io lo sono. qualcuno deve pur portare la piuma in equilibrio sulla clavicola destra, nell’affollamento così evidente di schiene stremate (dalle croci).

Della deità:

1. In età apocrifa mi s’insegnò che gli atti hanno ragion d’essere nella loro fine. Femminile, la fine e femminea, non maschile, il fine. Solo dopo un numero di resurrezioni indistinguibile dall’infinito – vivo ogni morte, checchè se ne traduca – capii d’essere principio io stesso e unico degli atti – risparmio i possessivi, chè solo io esisto veramente – e che la mia onnipotenza s’interrompeva ad un attimo dalla fine. Che per essermi scelto antropomorfo avevo, naturalmente, rinunciato all’onnipotenza e per essermi scelto uomo dovevo aver prodotto (sono sempre già-stato, anch’io):

2. Lei. in dio coincidono causa ed effetto. quotidianamente – sul tempo in seguito – Lei masturba con pazienza e visionaria ondivaghezza i crucci di dio: dalla causa su fino all’effetto e giù di nuovo alla causa sulla quale preme delicatamente il palmo della mano sinistra, fino a far dei due estremi logici uno.

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