Si fa misero
il mio linguaggio
e non sa dire
come sembri infinito
essere me,
ora che mi domando
e tu rispondi.
Si fa misero
il mio linguaggio
e non sa dire
come sembri infinito
essere me,
ora che mi domando
e tu rispondi.
“Ecco, non c’è sopra nè‚ sotto! Slànciati e
vola: in giro, in avanti, all’indietro, tu che sei lieve! Canta!
non parlare più! – non sono le parole, tutte, fatte per i grevi? Non
mentono tutte le parole per chi è lieve! Canta! non parlare più!”
[…]
Ma quando la danza ebbe termine e le fanciulle se ne furono andate, diventò
triste. “Il sole è sotto da un pezzo, disse infine; il prato è umido,
dalle foreste viene il freddo. Qualcosa di ignoto mi avvolge e
guarda pensoso a me. Come! Tu vivi ancora, Zarathustra?
Perché? Per chi? Con che? A che? Dove? Come? Non è follia,
vivere ancora? – Ahimè, amici, è la sera che mi mette in bocca
queste domande. Perdonatemi la mia tristezza! Si è fatta sera:
perdonatemi che si sia fatta sera!”
Si attendono,
facilissimi belletti di carne,
allo scheletro poroso
di miei-tuoi incompiuti rinarrati
tante ore di budella
miseramente vuote di manque.
Ti faccio mnemofacezia
bagnata, ad inverare,
di questo mare ormai
di sole semibisdrucciole.
Di questo abortito
alessandro l’insufficienza mitocondriale
(mai si crea (l)a perfezione)
in attesa che tu venga,
a che si alzi e cammini,
a dargli la morte.
Hai perso,
dolcissima,
tutti i luoghi;
fuorché quell’intercapedine squisitamente estiva tra la spinta degli occhi e la merda luminoso-vacanziera che si chiama e chiamiamo e chiama riposo. E’ un gioco fenomenologico, infine: capire se si apra tra cristallino e retina o tra intenzione e residuo.
Carapace di tempo in-vissuto
vuoto semplice fatto pesare
fatto pesante di giaciglio
in giaciglio.
I tuoi occhi sulle mie spalle
come se niente fosse
a stupirti delle mie stranezze.
(Addio strano, nonna.)
“Dispercezione del presente, tu,
participio bordato di pizzo,
Amore,
rododendro di derma
all’asola del mio non.”
[…]
Poche parole, mia Inestimabile,
meritano la carta.
Chi sa se queste,
le precedenti… No!
L’azione è aborto, se non s’ammanta d’oblio!
(Potresti nascondermi la Terra, tu.)
Ma l’umano mi si fa sempre più estraneo,
mio Ridere Incurante:
così poca cosa sono,
e per di più ritratta in sé,
che sparisco nel vivereuclideo.
Lo stesso mio parlarmi-stesso
è noia circense.
E mi consolo: le idee non durano otto ore e
si ostinano al collo
di chi ne ha uno.
Ma nessuna delle mie manie
esce dal tempo,
misero lacchè di questa vita.
Qual noiosa, noiosa operetta mi vado cantando!
Le idee son limitate e non posso averle tutte.
Occorre che tu impari a morire, mia Cara
e che porti con te la mia voce.
Sono stanco di essermi.
Mi farò dotto lacrimale,
ma come potrei parlarti
due volte con la stessa lingua?
Ogni parola nasce cadavere
e tu sei sentire distillato!
[…]
Silenziodioso, sangue di sigaretta;
si deve decapitarsi per riposare.
Comunanza nella frivolezza,
ecco cosa attanaglia questa rivolta!
E’ un bisogno di bisogni,
caro il mio Sole raffreddato e imbelle,
siamo, tanto per fare,
ma che mai si faccia troppo. Mai.
Oh madri di quest’orbe troppo studiato,
trattenete i vostri aborti in grembo
prima che diventino umani.
Parlo affinché non mi s’intenda,
ma (mi) parlo perché si sospetti,
ci si confonda. In realtà?
Conservava gelosamente l’abitudine disseminare di trappole d’inchiostro la strada lungo la quale cercava di mettere in fuga la veglia. “Dove finiscono le mie dita e dove comincia la carta?” Pensò osservando il bianco tra le parole del libro che si trovò costretto, come prima azione seguente il risveglio, (a rigurgitare) ad estrarsi – in maniera non del tutto indolore – dal cervello. “Cosa li separa” proseguì “se la mia pelle è fatta d’infinite brane e lo stesso la pagina?”. L’atto del toccare, del venire in contatto, nemmeno lontanamente ha la forza di sobbarcarsi il compito di colmare la distanza tra i due in-finiti. Ad un occhio più attento (cominciavano spesso così i riquadri color pastello dei libri di scuola che spesso non riusciva a capire) quella della separazione appariva una convinzione infondata, un’incrostazione concettuale dovuta alla fede nel linguaggio. “Carta” e “pelle” sono separati da uno spazio (occupato da una “e” in questo caso, per ragioni grammaticali) che si esprime in una pausa, in un breve silenzio. Una prospettiva molto spiritosa, che però nascondeva un’insidia: dove si sarebbe interrotto l’essere-carta delle brane e dove ne sarebbe cominciato l’essere-pelle? Al suo sguardo attento le brane dell’uno e dell’altro lato del presunto contatto altro non avevano a raccoglierle che una parola! Con un salto favorito dal silenzio, d’improvviso, il dito diventava di carta e la pagina di pelle.
Era un mercoledì pomeriggio di agosto e stupita l’umanità poté assistere ad una pioggia di unghie di martiri e denti scheggiati di vittime. Casualmente per chi non crede nel caso e necessariamente per chi non crede nel credere, questi scarti di ostinato attaccamento alla vita si disponevano a terra in piccoli mucchietti di indignata ghiaia sui quali nulla di organico sarebbe mai potuto crescere. (Non si mangia…) un’idea (“Perché”, si capisce) non è strettamente organica, nonostante [l’evidenza di corridoi accademici (Platone, giustappunto si parla di idee)] lo sia la sua condizione necessaria – ammesso che si pensi e non si pensi, impersonale il primo “si” e celante un’autonomia di un pensiero il secondo; nella confusione del linguaggio l’impersonalità e l’autonomia di un ente astratto si ritrovano ad essere simboleggiati dalla medesima parola. Come ci si può seriamente fidare del linguaggio? – e rimane astratta finché non diventa perturbazione del mezzo: suono, parola.
Nel caldo atroce di quel pomeriggio ogni cosa rischiava di essere ogni altra.
Si chiese cosa avesse in realtà sfiorato pensando di aver a che fare con le Sue ginocchia e che cosa valesse ora il privilegio tanto faticosamente acquisito di poterle baciare le palpebre socchiuse. Di Lei aveva sempre posseduto solamente il nome, col suo incipit di povera maiuscola serpeggiante; non l’aveva mai raggiunta, scoprì.
Quindi?
Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può.
Dacché nessuna delle categorie di cui sopra si azzarda ad irretirmi, nasco (tramontando), come scrittore, al seguito d’un iniziato depensarmi disilluso figlio di sterile pensarsi. Arduo nasce quest’io schiavo dell’inchiostro, come co-natus di impersonale volontà creatrice.
De-scrivere il volersi impossibilitato da sempre ineguali se stessi: inizio, fine e mezzo della mia opera (così mi concedo di definirla).
Dell’arte mi interessa e possiede l’eccesso, non-arte per l’arte, si è capolavori, non si produce, ma si è prodotti in un orgiastico smembrarsi in versi satiresco.
Gli è un’apolidicità linguistica mirante a decostruire ciò che è classico, non in funzione, ma in vista di ciò che sarà presente ogni qualvolta lo (si) vorrà; libertà delle parole di inventarsi, delle convenzioni del linguaggio di lasciarsi cadere: mi tento e sono tentato ad afferrare lo scorrere stesso senza riuscire ad ottenere altro che suoni.
Non c’è luogo per assurdità metafisiche nell’opera di questo non-più, né per maiuscole significanti chissà quale assenza trascendentale.
Disarticolazione, lussazione del discorso a produrre una lingua incapace di possedersi e di regolarsi: risultato di uno sforzo asistematizzante che unisce in coro le avanguardie di ogni periodo storico.
Così scrivo allo stesso modo di ciò che c’è e di ciò che non c’è, senza pretendere di porre l’un modo d’esistere al di sopra dell’altro.
Fine d’un quanto mai complicato ritrarmi.
A.
“Silvae-I” verrà pubblicata nel libro “Tra un fiore colto e uno donato” (volume 10) edito da Aletti Editore in uscita a fine maggio.
Theres a look on your face I would like to knock out
See the sin in your grin and the shape of your mouth
All I want is to see you in terrible pain
Though we wont ever meet I remember your name
Cant believe you were once just like anyone else
Then you grew and became like the devil himself
Pray to god I can think of a kind thing to say
But I dont think I can so fuck you anyway
You are scum, you are scum and I hope that you know
That the cracks in your smile are beginning to show
Now the world needs to see that its time you should go
Theres no light in your eyes and your brain is too slow
Cant believe you were once just like anyone else
Then you grew and became like the devil himself
Pray to god I can think of a kind thing to say
But I dont think I can,
so fuck you anyway
Bet you sleep like a child with your thumb in your mouth
I could creep up beside put a gun in your mouth
Makes me sick when I hear all the shit that you say
So much crap coming out it must take you all day
Theres a space kept in hell with your name on the seat
With a spike in the chair just to make it complete
When you look at yourself do you see what I see
If you do why the fuck are you looking at me
Why the fuck why the fuck are you looking at me
Theres a time for us all and I think yours has been
Can you please hurry up cos I find you obscene
We cant wait for the day that youre never around
When that face isnt here and you rot underground
Cant believe you were once just like anyone else
Then you grew and became like the devil himself
Pray to god I can think of a kind thing to say
But I dont think I can so fuck you anyway
So fuck you anyway