Autobiografia d’un ritratto

Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può.

Dacché nessuna delle categorie di cui sopra si azzarda ad irretirmi, nasco (tramontando), come scrittore, al seguito d’un iniziato depensarmi disilluso figlio di sterile pensarsi. Arduo nasce quest’io schiavo dell’inchiostro, come co-natus di impersonale volontà creatrice.

De-scrivere il volersi impossibilitato da sempre ineguali se stessi: inizio, fine e mezzo della mia opera (così mi concedo di definirla).

Dell’arte mi interessa e possiede l’eccesso, non-arte per l’arte, si è capolavori, non si produce, ma si è prodotti in un orgiastico smembrarsi in versi satiresco.

Gli è un’apolidicità linguistica mirante a decostruire ciò che è classico, non in funzione, ma in vista di ciò che sarà presente ogni qualvolta lo (si) vorrà; libertà delle parole di inventarsi, delle convenzioni del linguaggio di lasciarsi cadere: mi tento e sono tentato ad afferrare lo scorrere stesso senza riuscire ad ottenere altro che suoni.

Non c’è luogo per assurdità metafisiche nell’opera di questo non-più, né per maiuscole significanti chissà quale assenza trascendentale.

Disarticolazione, lussazione del discorso a produrre una lingua incapace di possedersi e di regolarsi: risultato di uno sforzo asistematicizzante che unisce in coro le avanguardie di ogni periodo storico.

Così scrivo allo stesso modo di ciò che c’è e di ciò che non c’è, senza pretendere di porre l’un modo d’esistere al di sopra dell’altro.

Fine d’un quanto mai complicato ritrarmi.

 

A.