27 agosto 2021

Nerolalìa
O( )scurolallere belle
in tempo di( )spari(re),

Tra corpi pronominali
Non filtra luce
Che ingen(i)talisca
Gli impatti.

Per noi
(che nasciamo)
irreali
È troppo umana
la voglia tenera
di-spiegarsi
(nel)la voglia infinito-cardinale
che digrigna le (im)proprie
logiche al tempo norm[…]

Grammatematica

Bicchiere d’acqua sospeso su un ombrello francese,

(impossibile è una condizione al contorno)

«perdere» in transitività inversa.

 

Per niente al mondo, mia

pour rien au monde, tu:

elevata alla punto interrogativo,

rarefazione grammatematica

d’un linguaggio

infine smarritosi.

 

[…]

Due parole (in veste scherzosa) a proposito di una dichiarazione del papa.

http://www.liberoquotidiano.it/news/1300837/Papa-Francesco-e-i-giovani-pessimisti-Io-li-manderei-dallo-psichiatra.html
Premesso che mi dà la nausea dovermi basare su di una notizia fornita da Libero e che non ho trovato il testo completo dell’intervento, qualche spunto:

Mi sembra piuttosto violenta come soluzione quella di proporre l’internamento per i giovani pessimisti e di gusto squisitamente cinquecentesco. In qualche modo mi fa pensare – abbandonando la cronologia vera e propria – ad un “libro e moschetto” che nell’enorme distanza simbolica perde il libro, ad una retorica da campetto da calcio dell’oratorio le righe del quale separano i pasoliniani maschi (figli di mignotta) dai figli di buona donna, femminei e “studentelli”. Mi diverto ad immaginare il piccolo Jorge maschio-dentro-le-righe che fa rumore, che va controcorrente e che definisce deliranti gli studentelli fuori dalle righe.

Nell’imbarazzante vuoto concettuale della “Lumen fidei” coperto con un velo pietoso di metafore si possono intravedere i maestri gesuiti dannarsi per far studiare Jorge; lui, che è troppo occupato seguire la propria luce interiore assoluta ed univoca ed a curarsi di chi si perde a seguire le tenebre della riflessione, del povero gobbetto di turno.
Non stupisce, a pensarci bene, che la suddetta soluzione sia stata proposta dal massimo rappresentante di un insieme di persone che usa personificare la morale per (meglio) sottoporle quella facoltà desiderativa che ha imparato a temere come incessantemente gravida di mostri o in altri termini vivente in funzione – naturalmente univoca – di un genitore immaginario maschio, ottimista ed estremamente sicuro di sè (al punto da accaparrarsi un’ostinatissima maiuscola) del quale postula l’esistenza. Non stupisce perchè è cosa vista mille volte che un adulto svuoti le proprie tasche interiori e dia infine un nome alle proprie tendenze e ai propri bisogni di gioventù.

[Qualcuno dotato magari di una luce più fioca, si limita a cercare tali rimandi in un/una partner.]

David Lynch & Lykke Li – I’m Waiting Here

Considerazioni sparse sull’oblio inteso come ateismo.

Uno spostamento infinitesimo in più o in meno di intensità e frequenza e sarebbe stata una voce qualsiasi, invece quella voce diventa non-altra. Diventa la voce che vado cercando, trascinando il mio enorme amore. Quando mi fermo a prendere fiato, volendo rimanere per un attimo nella metafora. La designazione è assolutamente momentanea o per meglio dire circostanziale: ogni voce è non-altra se guardata fissa. Diventa idolo nell’effimera (contingentissima) sua unicità, rimando a ciò che mi va sfuggendo – avrei detto che vado cercando, dalla mia prospettiva e invece dico che mi va sfuggendo… dalla prospettiva di chi? Come se si potesse uscire dalla propria prospettiva.

[Come se ogni cosa non fosse non-altra esattamente come ogni altra nell’individuazione dell’osservare – che è irrimediabilmente – soggettivo.]

“Mi va sfuggendo” e non “mi è sfuggita” perché quest’io prova a costruire una zona d’indeterminazione dalla quale far germogliare il caso, che invece per sua definizione non ne vuol sapere di farsi fare (rapidamente sulla complessità di quest’ultima locuzione: il caso non si fa – rende – fare – intenzionalità – e non si fa – lascia – fare – produrre).
Non c’è bisogno che specifichi – è scritto un po’ ovunque, con o senza maiuscole – a quale specificazione del “caso” ci si riferisce.

Si osserva la strutturazione di un guardare simile a quello religioso, in questo sentimentaccio, ma che contrariamente a quello canonico (inventato da altre soggettività con pretese ben più trascendentali e sussumenti della mia, che di pretese proprio non ne ha) permette un ateismo non fideistico, anche se – e proprio perché – intimo e albergante nel ricordo.

“Visione!” di G. D’Annunzio – Abbozzo di lettura egoica.

Il sole ride; le nubi serene
Vagan pel cielo di cobalto al vento.
Ed io mi sento il freddo nelle vene,
Ed io nel curoe la morte mi sento!

Ma tu chi sei, gentile visione,
che mi tendi cosí le braccia stanche?
Che mi ripeti l’ultima canzone
Ai fior del campo, alle farfalle bianche?
Gentile visione!

Il sole ride;
Dalle acacie in fiore
Viene per l’aria una fragrante ondata
Ed io doman sarò nel cupo orrore dell’urna,
Sol, triste, assiderato!

Ma tu anche là,
Gentile visione,
Mi tenderai così le braccia stanche?
Oh! Sì, ripeti l’ultima canzone
Ai fior del campo, alle farfalle bianche!
Fedele visione!

Serissima, la domanda posta dal D’Annunzio perfettamente Vate dell’ultima strofa, mi cattura malamente. Dimissionario, decadente, immiserito appello di un uomo che interroga la propria creazione – la visione altro non è – per assicurarsi di poterne disporre anche post mortem. Di tanto in tanto distratto dalle meraviglie della natura, il moribondo si domanda se sarà capace di fantasia anche nel buio dell’urna.

Il soliloquio di D’Annunzio può avere come oggetto, non è possibile dirlo con certezza, una vera e propria visione così come la visione, la proiezione fantastica, di un’amata in carne ed ossa. In ognuno dei due casi il moribondo si augura che la sua creazione (ex nihilo o meno) rimanga in suo potere anche quando la ragion sufficiente di quest’ultimo sarà venuta meno, vuole accertarsi di continuare a vivere come pensiero e come canto.

Nell’egoismo tipico di colui che “sente” forte un sentimento, che può avere per motto “Io solo conosco la potenza di ciò che sto sentendo”, pretende di decidere quale ne sarà l’eco e chi dovrà vibrarla. […]

E’ davvero una bozza. E’ un pensiero che nacque quando lessi per la prima volta il brano al quale rimane ora in calce e sul quale prendo appunti da parecchio, mentali o cartacei, ma che non riesce a farsi “sferico”. Pubblico questo disordine nella speranza di raccogliere opinioni di altri che, come me, hanno a cuore la tematica dell’egoismo del sentimento.

Un suggerimento:

Anatomia di un’ossessione, I – “Silvia”

Pretendi, mi esigi senza chiedere. Senza domandare (soprattutto!).

(Ma è di me che si sta parlando, naturalmente. Sempre dal e del “…” si (?) parla. Del “…” che si parla addosso, che si sbrodola, eterno neonato incapace di gestire i propri rigurgiti.)

Ho dovuto fare di te una parola, per renderti disponibile ed accantonabile. Ti sei impadronita anche di questo mio tentativo con così poco ritegno che ho pensato che la tua esistenza di “gentile visione” potesse non dipendere interamente dal mio lavorìo. Ho pensato che esistessi davvero, qui. Ho creduto di averTi creata. Impossibile definire quel “Ti”, impossibile definire i pronomi di questo monologo.

Ti ho dato un nome – il tuo a dire il vero – e ho cercato di disoccuparmi di me (di te) e di te (di me), non senza sperare che decantassi il veleno che ti rese mia e di essere in grado di raccoglierlo e riutilizzarlo. Naturalmente, divina – mio malgrado – creatura, ti sei avvolta intorno a quel nome. E’ così che nascono gli inesistenti, gli dèi. E sapevi (l’ho capito grazie alla teologia) che è solo nella quiete che vive l’inverecondo*, quindi non ti sei mai allontanata dal piano della designazione sonora. Ho perso così amici come Bach, Chopin e Liszt.

Come vedi, parola, non uso più la “poesia”. Ti parlo per smettere di pronunciarti.
E siccome ero curioso di vedere una parola alle prese con un’immagine, ti ho immaginata. Sei così, ora:

Anatomia III

 

[…]

 

 

*Il vaglio della “realtà” terrorizza voi Idee.