Mi perdoni, Maestro, il perdono.

Mai,

mai il limite avrà il mio ossequio,

mai rimarrò serio alla vista

delle sue mani arricciate.

Non è mai stata soffocante

una solitudine

come quella del solco,

dove gli occhi di cammello

son ben fissi sulla fine.

L’inizio

è quando,

compagno il nulla,

si ha la fine alle spalle.

A F. W. Nietzsche.

Due parole (in veste scherzosa) a proposito di una dichiarazione del papa.

http://www.liberoquotidiano.it/news/1300837/Papa-Francesco-e-i-giovani-pessimisti-Io-li-manderei-dallo-psichiatra.html
Premesso che mi dà la nausea dovermi basare su di una notizia fornita da Libero e che non ho trovato il testo completo dell’intervento, qualche spunto:

Mi sembra piuttosto violenta come soluzione quella di proporre l’internamento per i giovani pessimisti e di gusto squisitamente cinquecentesco. In qualche modo mi fa pensare – abbandonando la cronologia vera e propria – ad un “libro e moschetto” che nell’enorme distanza simbolica perde il libro, ad una retorica da campetto da calcio dell’oratorio le righe del quale separano i pasoliniani maschi (figli di mignotta) dai figli di buona donna, femminei e “studentelli”. Mi diverto ad immaginare il piccolo Jorge maschio-dentro-le-righe che fa rumore, che va controcorrente e che definisce deliranti gli studentelli fuori dalle righe.

Nell’imbarazzante vuoto concettuale della “Lumen fidei” coperto con un velo pietoso di metafore si possono intravedere i maestri gesuiti dannarsi per far studiare Jorge; lui, che è troppo occupato seguire la propria luce interiore assoluta ed univoca ed a curarsi di chi si perde a seguire le tenebre della riflessione, del povero gobbetto di turno.
Non stupisce, a pensarci bene, che la suddetta soluzione sia stata proposta dal massimo rappresentante di un insieme di persone che usa personificare la morale per (meglio) sottoporle quella facoltà desiderativa che ha imparato a temere come incessantemente gravida di mostri o in altri termini vivente in funzione – naturalmente univoca – di un genitore immaginario maschio, ottimista ed estremamente sicuro di sè (al punto da accaparrarsi un’ostinatissima maiuscola) del quale postula l’esistenza. Non stupisce perchè è cosa vista mille volte che un adulto svuoti le proprie tasche interiori e dia infine un nome alle proprie tendenze e ai propri bisogni di gioventù.

[Qualcuno dotato magari di una luce più fioca, si limita a cercare tali rimandi in un/una partner.]

David Lynch & Lykke Li – I’m Waiting Here

Considerazioni sparse sull’oblio inteso come ateismo.

Uno spostamento infinitesimo in più o in meno di intensità e frequenza e sarebbe stata una voce qualsiasi, invece quella voce diventa non-altra. Diventa la voce che vado cercando, trascinando il mio enorme amore. Quando mi fermo a prendere fiato, volendo rimanere per un attimo nella metafora. La designazione è assolutamente momentanea o per meglio dire circostanziale: ogni voce è non-altra se guardata fissa. Diventa idolo nell’effimera (contingentissima) sua unicità, rimando a ciò che mi va sfuggendo – avrei detto che vado cercando, dalla mia prospettiva e invece dico che mi va sfuggendo… dalla prospettiva di chi? Come se si potesse uscire dalla propria prospettiva.

[Come se ogni cosa non fosse non-altra esattamente come ogni altra nell’individuazione dell’osservare – che è irrimediabilmente – soggettivo.]

“Mi va sfuggendo” e non “mi è sfuggita” perché quest’io prova a costruire una zona d’indeterminazione dalla quale far germogliare il caso, che invece per sua definizione non ne vuol sapere di farsi fare (rapidamente sulla complessità di quest’ultima locuzione: il caso non si fa – rende – fare – intenzionalità – e non si fa – lascia – fare – produrre).
Non c’è bisogno che specifichi – è scritto un po’ ovunque, con o senza maiuscole – a quale specificazione del “caso” ci si riferisce.

Si osserva la strutturazione di un guardare simile a quello religioso, in questo sentimentaccio, ma che contrariamente a quello canonico (inventato da altre soggettività con pretese ben più trascendentali e sussumenti della mia, che di pretese proprio non ne ha) permette un ateismo non fideistico, anche se – e proprio perché – intimo e albergante nel ricordo.

IV – Primissima bozza

Conservava gelosamente l’abitudine disseminare di trappole d’inchiostro la strada lungo la quale cercava di mettere in fuga la veglia. “Dove finiscono le mie dita e dove comincia la carta?” Pensò osservano il bianco tra le parole del libro che si trovò costretto, come prima azione seguente il risveglio, (a rigurgitare) ad estrarsi – in maniera non del tutto indolore – dal cervello. “Cosa li separa” proseguì “se la mia pelle è fatta d’infinite brane e lo stesso la pagina?”. L’atto del toccare, del venire in contatto, nemmeno lontanamente ha la forza di sobbarcarsi il compito di colmare la distanza tra i due in-finiti. Ad un occhio più attento (cominciavano spesso così i paragrafi dei libri di scuola scritti in piccolo e che spesso non riusciva a capire) quella della separazione era una convinzione infondata, un’incrostazione concettuale dovuta alla fede nel linguaggio. “Carta” e “pelle” sono separati da uno spazio (occupato da una “e” in questo caso, per ragioni grammaticali) che si esprime in una pausa, in un breve silenzio. In realtà – un discorso davvero pretenzioso, degno di un pavone – le minuscole brane del dito, nel loro sovrapporsi continuo, potevano anche sovrapporsi (la cosa non lo avrebbe stupito più di un orologio che presa la forma del comodino non avesse cessato di ticchettare il solito tempo umano) alle brane della pagina. Da un certo momento in poi il dito sarebbe diventato di carta e la pagina di pelle. Una prospettiva molto spiritosa, che però nascondeva un’insidia: dove si sarebbe interrotto l’essere-carta delle brane e dove ne sarebbe cominciato l’essere-pelle?

[…]

Era un mercoledì mattina di agosto e stupita l’umanità poté assistere ad una pioggia di unghie di martiri e denti di vittime. Casualmente per chi non crede nel caso e necessariamente per chi non crede nel credere, questi scarti di ostinato attaccamento alla vita si disponevano a terra in piccoli mucchietti di indignata ghiaia sui quali nulla di organico sarebbe mai potuto crescere. (Non si mangia…) un’idea (“Perché”, si capisce) non è strettamente organica, nonostante (l’evidenza di corridoi accademici (Platone, giustappunto si parla di idee)) lo sia la sua condizione necessaria – ammesso che si pensi e non si possa essere pensati – e rimane astratta finché non diventa perturbazione del mezzo: suono, parola.

Nel caldo atroce di quella mattina ogni cosa rischiava di essere – in parte o del tutto – ogni altra.

Luoghi e modalità della formazione stellare.

Al link in allegato una mia presentazione in powerpoint sulla genesi stellare, con particolare attenzione alle fasi che precedono la Zero Age Main Sequence. L’esame per il quale l’ho preparata è andato piuttosto bene, quindi forse può essere d’aiuto a qualcuno che abbia intrapreso il mio stesso percorso.

Vi chiedo solo un grazie  e di segnalarmi eventuali errori.

https://dl.dropboxusercontent.com/u/8261250/Presentazione/Presentazione.odp

“Visione!” di G. D’Annunzio – Abbozzo di lettura egoica.

Il sole ride; le nubi serene
Vagan pel cielo di cobalto al vento.
Ed io mi sento il freddo nelle vene,
Ed io nel curoe la morte mi sento!

Ma tu chi sei, gentile visione,
che mi tendi cosí le braccia stanche?
Che mi ripeti l’ultima canzone
Ai fior del campo, alle farfalle bianche?
Gentile visione!

Il sole ride;
Dalle acacie in fiore
Viene per l’aria una fragrante ondata
Ed io doman sarò nel cupo orrore dell’urna,
Sol, triste, assiderato!

Ma tu anche là,
Gentile visione,
Mi tenderai così le braccia stanche?
Oh! Sì, ripeti l’ultima canzone
Ai fior del campo, alle farfalle bianche!
Fedele visione!

Serissima, la domanda posta dal D’Annunzio perfettamente Vate dell’ultima strofa, mi cattura malamente. Dimissionario, decadente, immiserito appello di un uomo che interroga la propria creazione – la visione altro non è – per assicurarsi di poterne disporre anche post mortem. Di tanto in tanto distratto dalle meraviglie della natura, il moribondo si domanda se sarà capace di fantasia anche nel buio dell’urna.

Il soliloquio di D’Annunzio può avere come oggetto, non è possibile dirlo con certezza, una vera e propria visione così come la visione, la proiezione fantastica, di un’amata in carne ed ossa. In ognuno dei due casi il moribondo si augura che la sua creazione (ex nihilo o meno) rimanga in suo potere anche quando la ragion sufficiente di quest’ultimo sarà venuta meno, vuole accertarsi di continuare a vivere come pensiero e come canto.

Nell’egoismo tipico di colui che “sente” forte un sentimento, che può avere per motto “Io solo conosco la potenza di ciò che sto sentendo”, pretende di decidere quale ne sarà l’eco e chi dovrà vibrarla. […]

E’ davvero una bozza. E’ un pensiero che nacque quando lessi per la prima volta il brano al quale rimane ora in calce e sul quale prendo appunti da parecchio, mentali o cartacei, ma che non riesce a farsi “sferico”. Pubblico questo disordine nella speranza di raccogliere opinioni di altri che, come me, hanno a cuore la tematica dell’egoismo del sentimento.

Un suggerimento:

“Hysterical literature”. Un’ipotesi di lettura

Il professionismo del sentire si sobbarca il non-peso dell’opera di uno scribacchino e produce l’artificio illusorio di un capolavoro. “Il significato é un sasso in bocca al significante” fin quando, riducendolo – innalzandolo? – a suono di sottofondo, non fa in modo che del primo ci si possa praticamente dimenticare. A questo punto parossistico il significato (di)viene significato (del) dal significante, che non pretende di significare altro da sé, dimentico, nell’abbandono, della propria “missione”. In questo disordine di idee la scrittura, la cristallificazione di un pensiero, può riprendere la libertà che è propria del pensiero, che è una successione di forme pseudoricorrenti con le proprie varianti, come la musica è successione di note.
In particolare nel video in questione lo strumento musicale scavalca la stessa logica delle note, sfociando in ciò che, a mio avviso, Carmelo Bene definiva “porno”.